Penso alla storia di Leonard, Lillian, Deborah e degli altri pazienti della clinica newyorchese di Mont Carmel protagonisti del bestseller di Oliver Sacks, “Risvegli”, sfogliando le piante, belle e misteriose, del libro, “Etnobotanica in Calabria”, dei miei amici Antonella, Carmine e Raffaele in uscita per Rubbettino (pp. 341, euro 25). Perché, parafrasando Renè Magritte (“Ceci n’est pas une pipe”), si può affermare che “questo” non è (solo) un libro di etnobotanica, branca interdisciplinare di cui gli autori (Antonella Lupia, laurea in scienze fisiopatologiche e specializzata in biochimica clinica, Raffaele Lupia, esperto in scienze agrarie e forestali e Carmine Lupia, botanico) danno prova di profonda conoscenza, affrontando con rigore metodologico lo schedario scientifico-divulgativo delle 530 piante rassegnate con l’obiettivo di sollecitare una maggiore sensibilità ecologica e di attualizzare la relazione persona umana-mondo vegetale. Non solo etnobotanica, pur assurgendo tra le più complete e affascinanti opere del suo genere in Italia. In più, aderisce strettamente, per i contenuti originali e lo strenuo attaccamento al territorio – di cui narra usi, saperi e costumi – al concetto di “clinica dei risvegli” (il copyright è del naturalista e scrittore Francesco Bevilacqua) che alla Calabria del nostro tempo difficile, depositaria di una strabiliante storia millenaria e di inestimabili beni ambientali, dovrebbe essere molto caro.

530 PIANTE DA SFOGLIARE La storia vera di uomini e donne colpiti negli anni ’20 da un’epidemia di encefalite letargica, che mezzo secolo dopo vennero svegliati con un nuovo farmaco (L-dopa) tornando a nascere con i capelli brizzolati e resa popolare dal film con Robert De Niro e Robin Williams, dà modo di accostare i contenuti del libro all’idea squisitamente politica e culturale di “clinica dei risvegli”. Qui, va da sé, non è un farmaco che agisce per restituire soggettività e autonomia d’azione ad un pezzo di Calabria che non vuole più essere rappresentato come “periferia degradata dell’impero”, ma l’intera ventennale esperienza delle “Valli Cupe” oggi Riserva Naturale grazie a una legge del consiglio regionale della Calabria. Un’esperienza verde divenuta simbolo di un Mezzogiorno che scaccia il demone dell’assistenzialismo e rimpossessandosi, come direbbe il sociologo Franco Cassano, «dell’antica dignità di soggetto del pensiero, interrompendo la lunga sequenza in cui il Sud è stato pensato solo da altri», risveglia un’intera area silana e le inietta potenti dosi di speranza. Coraggio di fare, studiare, confrontarsi, aprire attività commerciali; di adoperarsi, insomma, per migliorare i luoghi e scoprirne i giacimenti naturalistici e antropologici che li distinguono e li rendono unici. Presidi per la valorizzazione dell’ambiente e incubatori di pratiche innovative come le “Valli Cupe” che provano a restituire la vita a chi è finito nel coma della rassegnazione vanno sostenuti, corroborati, replicati. Attenzione, dunque, a non farne prosciugare l’entusiasmo consegnandoli a una burocrazia che invece di assecondare il cambiamento si mette programmaticamente di traverso. Il libro è il primo parto di questo fecondo laboratorio il cui epicentro antropico è Sersale, a un salto dal Gariglione: la foresta vergine che piacque a Norman Douglas. Fa un’apprezzabile operazione di recupero delle conoscenze legate alla materia naturalistica ed etnobotanica che piacerebbe molto al pedagogista Nicola Siciliani de Cumis, secondo cui lavori del genere sono essenziali, perché costituiscono l’elemento tradizionale della trasmissione di un sapere specifico di generazione in generazione. Infatti, come si evince chiaramente, le componenti biologiche e topo-geografiche evidenziate dagli autori, non sono che l’altra faccia delle componenti storico-culturali ed educative dell’operazione tecnica, etnobotanica in senso stretto. I fiori e le erbe rappresentano la cronaca di un’antica storia quotidiana raccontata dagli alberi, dagli uomini, dalle mani, dagli strumenti di lavoro e di svago, dagli oggetti di un’archeologia agricola che si fa ripensare nel presente.

IL MONACHESIMO E LE ERBE MIRACOLOSE Inoltre, le piante di questo lembo di Calabria felix raccontate con ampie didascalie prive di sbavature e aliene da urtanti semplificazioni, evocano la complessità dell’impianto culturale di una storia che ha avuto nel monachesimo, che in Calabria ha rappresentato un formidabile ponte tra Occidente e Oriente, il suo punto d’eccellenza. San Francesco di Paola, capace di miracoli con l’uso delle erbe, nel 1483 fu chiamato alla corte di Francia per curare Luigi XI gravemente ammalato, anche se nel castello di Plessis-lez Tours il miracolo che il protettore della Calabria e della gente di mare fece fu di persuadere il re a morire con cristiana serenità. Il libro ci confida che i “fast food”, la cosmesi sofisticata di un consumismo edonistico hard e gli intrugli per l’immortalità imperversanti nella implosa civiltà globale, possono essere demistificati e archiviati, scavando non solo nel passato remoto, ma anche nel presente dei nostri borghi dove, per fortuna, resistono le tracce di un umanesimo mediterraneo a cui attingere a piene mani. E senza il quale, dopo “la fine del mondo liquido” (è il titolo di un interessante saggio del sociologo Carlo Bordoni), saremmo costretti ad attardarci infinitamente nell’interregno ( “interregnum” appartiene al diritto romano, ma nell’accezione qui intesa è tratta dai “Quaderni” di Gramsci) della nostra epoca che, tra il dissolvimento della modernità (anche di quella che Zygmunt Bauman definisce “liquida”) e il nuovo tempo che “non avanza”, ci vede come zombi senza identità, anime angosciate dalla “coscienza lacerata”.

Di Romano Pitaro